17/04/2015 Editoriale

Certo che i bambini sanno

Lo sapevamo già: i bambini sanno e soprattutto capiscono. E adesso che sta per arrivare sugli schermi il film di Walter Veltroni,  I bambini sanno (23 aprile), la fantasia mediatica si scatenerà: il titolo sarà citato chissà quante volte, parafrasato, come successe ai tempi di I bambini ci guardano di Vittorio De Sica.

Detto questo, in quel titolo c'è una verità dimenticata. E cioè che bambini e ragazzi sanno, non sono scatole vuote da riempire di nozioni, emozioni e purtroppo anche di pregiudizi, talvolta. Hanno una dimensione che li porta ad elaborare e a pensare in proprio. Perché se è vero che il terreno di coltura e di cultura in cui crescono è il principale fattore di identità, i bambini sanno molto di più di quanto pensiamo. Hanno profondità insospettabili che poco coincidono con i clichè con i quali spesso descriviamo la generazione dei nostri figli: apatica, sempre connessa, indifferente, senza valori e senza desideri.

Non è così.

E non lo dico per una difesa d’ufficio della categoria, visto che il mio ruolo è di occuparmi di chi ha fra zero e 18 anni; né lo affermo per un ottimismo infantile (mio), che mi porta a pensare in positivo; e neppure perché la convinzione che la realtà sia meno dura, aiuta ad andare avanti. Niente di tutto questo. È ciò che vedo e sento andando in giro per l’Italia e incontrando i ragazzi: sento infatti in loro una forza d’urto potente e un desiderio di vivere in una società civile. Una richiesta. Una voglia di modelli di riferimento. Se li si ascoltasse di più, si sentirebbe la domanda di nuovo e direi di "meglio". Una domanda che obbliga lo Stato ad assumersi responsabilità e ad occuparsi della cosa pubblica veramente.

Forse, l’apatia è più nostra che loro, l'idea che «tanto non si cambia la realtà» è di noi grandi e non degli adolescenti. 

Il tour Diritti al futuro. Una piccola grande Italia da raccontare ci ha messo di fronte a realtà anche dure, poco raccontate, ma in cui si è respirata una voglia di riscatto malgrado tutto, sì, malgrado il poco che molti di questi ragazzi hanno avuto nascendo in culle “sbagliate”, sfortunate.

Nel docufilm veltroniano passano davanti alla cinepresa 39 bambini, hanno fra i nove e i 13 anni (mi sembra di ricordare dai titoli di coda), sono figli di famiglie agiate o di migranti, di rom o di musulmani, di operai come di due madri (una famiglia arcobaleno); sono romani, colombiani, veneti, lombardi… rispondono a domande “filosofiche” che piegherebbero un adulto, tipo: «Cosa pensi di Dio?», «Quando sei stato felice?» «La cosa più bella che può succedere?».

Mi è difficile dire cosa mi ha colpito di più, se ho riso o mi sono commosso (in realtà, entrambe le cose), se mi aspettavo un altro film, se muoverà qualcosa o se sarà solo una delle uscite cinematografiche primaverili. Una cosa però è certa: qualcuno ha ascoltato cosa hanno da dire i giovani. E già non è poco, per noi l’ascolto è una delle priorità, perché significa che bambini e ragazzi sono considerate persone. Persone.

La nostra è una società che da una parte adultizza i giovani e dall’altra cerca di controllarli, considerandoli eterni “piccoli”, incapaci di responsabilità, scelte, consapevolezza.

I bambini sanno contiene frasi che ci obbligano a riflessioni, ad ammettere che forse sarebbe ora di considerare chi ha meno di 18 anni semplicemente "persone": con sentimenti, pensieri, rabbie, desideri. Cito disordinatamente alcuni dialoghi fra intervistatore e giovani. «Quando hai un problema con chi parli?», «Con nessuno. Mi sfogo da solo», «Perché?», «Perché i miei problemi non sono importanti»; oppure, un’altra sequenza: «Cosa sanno di più i bambini?», «Quanto è difficile vivere a 10 anni. È un’età difficile da vivere». O ancora: «L’Italia come ti sembra in questo momento?», «Non troppo bella». C’è anche una bambina di dieci anni che racconta di mettere via i soldi delle paghette e dei dentini caduti così da grande «non avrò il mutuo da pagare». E da ultimo, una doccia fredda, chiedono: «Se pensi al futuro, pensi a paura o a speranza?». Risposta: «Scusa, ma cosa vuol dire speranza?».

Frasi che si commentano da sole, che fanno capire quanto i giovani siano consapevoli di ciò che accade loro intorno, di quanto non abbiano fiducia nel mondo adulto; di quanto il Paese che vorrebbero sia diverso da quello reale. Di quanto la politica si debba occupare di loro non aspettando che diventino cittadini con diritto di voto.

Vincenzo Spadafora

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